Anitya
testo a cura di
Silvia Nonaizzi
Sono concetti universali e senza tempo quelli contenuti nell’opera di Chiara Giannini Mannarà. Riguardano la storia del mondo e dell’umanità, raccontano i reali e fondamentali processi dell’esistere, parlano di morte e accettazione della morte, ma anche di vita e di rinascita, con un continuo riferimento all’essere femminile, figura essenziale, generatrice di ogni presupposto legato a tali temi. Potente, protettrice, robusta e vigorosa, la madre garantisce la vita e, grazie alla sua attività gestante, mantiene accesa la fiamma dell’esistenza. Il ponderato interesse di Mannarà per la sfera femminile si concentra e riversa su opere impregnate di un femminino non femminista, ovvero di un femminino che non rivendica un ruolo di dimenticata importanza ma considerato nella sua oggettività: donna, ma anche orsa, cavallo, ghepardo, umana o animale… femmina, non nella sua accezione discriminatoria bensì con esaltazione del suo ruolo di madre, di principio, entità che indubbiamente dà origine e provvede alla continuità di ogni specie. E se di femminismo vogliamo parlare, la questione è qui trattata libera da ogni dinamica contemporanea, ma considerata nel suo aspetto primordiale e originario, nella sua componente atavica e bestiale.
Anitya, termine sanscrito che indica il cambiamento, il divenire, il passaggio e l’impermanenza, è un concetto legato alla ciclicità dell’esistenza, caratterizzata da momenti connessi, consecutivi e conseguenti: la vita si realizza nell’istante in cui si nasce o si viene concepiti, e si esaurisce un momento prima della morte; la morte è la condizione necessaria per rivivere, per portare avanti uno schema circolare comune a ogni epoca, civiltà, cultura, essere… Rinascita è la parola chiave che contiene in sé morte e vita.
In questa narrazione di un processo continuo ed eterno, Mannarà intesse e dipinge immagini con un’abilità fuori dal comune, nonché con magnifica originalità stilistica. La pittrice non rappresenta mai una riflessione personale, sebbene l’interesse sia totalmente interiorizzato e intrecciato al proprio vissuto, ma riporta processi e concetti sempre presenti e celebrati fin dai tempi più antichi. Vita, morte, rinascita e femminino vengono ripresi dai molti culti e culture del mondo che fin da sempre se ne interessano: l’artista guarda alle religioni e ai rituali di America Latina, Sardegna, Egitto, Grecia, Giappone, ma anche alla mitologia germanica, scandinava o celtica. Ogni riferimento viene riportato sulla tela con cognizione di causa, senza operare mescolanze confuse e funzionali a una produzione eclettica, ma con precisi riferimenti alla genesi, alla madre e alla vita, universalmente riconosciuti da culture diverse ma non distanti, a cui appartengono iconografie spesso comuni.
Queste argomentazioni trovano una declinazione stilisticamente e formalmente potente: le immagini sono crude ed esplicite proprio perché rappresentazioni di eventi che appartengono alla dimensione terrena. Rappresentazione nella rappresentazione, Chiara Giannini Mannarà non si limita a riportare sulla tela la figura, ma crea brandelli di cultura e antichi reperti, simulando ora una pelle d’animale, ora una lastra di rame o intessendo tappeti. Ogni produzione è frutto di un rapporto intimo che l’artista intreccia con la sua creazione, in cui la materia conta tanto quanto la sostanza: attraverso il colore, l’acqua, il pigmento, ma anche il filo e il vello, Mannarà vive la sua gestazione trasferendo pathos creativo sul supporto come una litania consolatoria nell’attesa della nascita della sua opera. Ogni dipinto è allevato ancora prima di vedere la luce.
La madre generatrice e distruttrice, dispensatrice di vita e di morte, giusta ed eterna, è rappresentata dalle divinità religiose ma con una funzione tutt’altro che eterea quanto piuttosto terrena. E così la spiritualità delle opere, al di là di ogni onirismo, magia e potere soprannaturale, è legata a tutto ciò che è terreno e innegabilmente inconfutabile: il processo reale della creazione continua.
A ispirarla sono le donne di molte culture, icone, divinità, donne-animale, ma anche miti odierni e iconografie antichissime. Ed ecco allora che si può trovare somiglianza di un volto con quello di Patti Smith, o la stessa processualità tessile di Maria Lai, oppure una moderna interpretazione della statuetta steatopiga, senza braccia e dalla testa stilizzata, con il grembo rigonfio. Significativo è l’insegnamento dell’archeologa e linguista Marija Gimbutas, così come ogni suggestione dovuta ai testi dalla scrittrice Clarissa Pinkola Estés.
Per spiegare la creazione l’artista usa una simbologia ricorrente ricca di elementi figurativi connessi ai grandi temi vita, morte, nascita, maternità, cambiamento. Tra questi il filo, il vaso, il serpente, la pelliccia, l’acqua, le gemelle, lo scheletro, il bucranio e altri ancora...
Strettamente connessa alla donna e alla sfera femminile è l’attività della tessitura, una tradizione antica che di tramandava di madre in figlia. Come Aracne, Penelope, le Janas sarde, Nut, Amaterasu, le Parche, le Moire e molte altre figure femminili che lavorano al telaio, la stessa Mannarà intesse le sue trame non solo attraverso la pittura ma anche tramite un reale ed elaborato lavoro tessile, fabbricando tappeti. Ed è qui che il filo, reale o dipinto, assume un ruolo cruciale: un fascio di luce che collega e lega, rappresentazione della circolarità, connessione estrinseca delle azioni del nascere e del morire. I fili si uniscono e creano figure che generano a loro volta altri significati, come ad esempio il vaso, simbolo della donna fertile e gravida proprio per la sua forma che ricorda quella di una gestante, e di conseguenza simbolo di vita perché contenente l’acqua, elemento e fonte vitale da cui si sviluppa la vita. Alcune opere sono vere e proprie tessiture: arazzi o stendardi, tappeti di lana di bestia contenenti molti intrecci e figure create attraverso la cucitura e il ricamo. Il tappeto, una delle prime produzioni dell’uomo, usato per ripararsi e per coricarsi, è un elemento decorativo ma anche utensile; per i nativi americani rappresentava un luogo. Anche per Mannarà il tappeto è luogo: luogo dove inizia il gioco e la creazione, luogo in cui dipanare la propria narrazione.
Ricorre il serpente, animale che più di ogni altro esprime il concetto di Anitya, la mutazione e il cambiamento: cambiare pelle, abbandonare un corpo per entrare in un altro, lasciare una dimensione, quella della vita terrena, per ri-essere e ri-vivere sotto altre forme. Spogliarsi del proprio corpo è la condizione essenziale per rinascere. Contrapposto a questa immagine e alla capacità di rinnovarsi, è lo scheletro: le ossa, simbolo di permanenza, sono ciò che resta del corpo morto, spogliato di se stesso e della carne. La gabbia toracica contiene gli organi ma, contrariamente ad essi, non deperisce. Il doppio delle figure gemelle ritratte su una delle tele mette in rapporto questa dualità vita-morte presentando i due personaggi femminili come antitetici e complementari: il corpo morto e il corpo vivo, il corpo di carne della donna che ha preso consapevolezza di essere rinata e il corpo scheletrico della donna fantasma.
Come una Georgia O’Keeffe decisamente meno surreale, Mannarà inserisce il bucranio che acquisisce qui un senso vitale e positivo, sprigionando energia e abbandonando il significato di resto mortale: il teschio animale, con le sue corna, è associato all’apparato riproduttivo, di cui richiama la forma. Certo non dimentica il suo ruolo funebre allineandosi alla dualità concettuale che caratterizza tutta l’opera: utilizzato come maschera nei rituali più antichi per esorcizzare la morte, il teschio di bue dava anche forma alla disposizione delle tombe dei giganti sarde che viste dall’alto, una vicina all’altra, apparivano proprio come un bucranio stilizzato.
In queste opere è presente tanto la morte quanto la vita, poiché la morte non è che una tappa necessaria al rinnovamento e all’eterno processo creativo, conditio sine qua non per la rinascita. Per rifiorire è necessario deperire, per ri-essere è necessario morire. Il sistema dell’esistenza è autotrofo ed equilibrato e la sua circolarità è confermata da qualsiasi cultura e dottrina: si torna terra, si torna cenere e si torna da dove siamo venuti. Si torna nel grembo, si torna nella grotta. Luogo di morte ma anche di nascita, la grotta simboleggia l’utero materno, riparo e protezione per l’uomo preistorico che vi si rifugiava e lì narrava la propria storia; ed è la casa del defunto, dove il corpo riposa in eterno oppure si risveglia per tornare a vivere. Le opere di Mannarà richiamano il colore di quelle antiche pareti cavernose e ne riportano i simboli, quelli dei primi disegni rupestri e delle prime rappresentazioni di nascita e morte. Il rituale funebre ha senso proprio perché legato a un momento che è realmente e concretamente parte dell’esistenza: nei nuraghi sardi, ad esempio, cumuli di pietre che avevano anche funzione sepolcrale, il corpo del defunto veniva riposto in posizione fetale proprio in ragion di quel ritorno all’interno del grembo della madre, all’origine, al buio e a uno stato dormiente, quello prima della nascita.
Accettata e descritta nei suoi elementi più materiali e terreni, nelle opere di Mannarà la morte è un sonno, imprescindibile condizione per potersi risvegliare rinnovati, e la vita, a sua volta, è la situazione fondamentale perché la morte avvenga.